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12 MAGGIO 1935: INAUGURAZIONE DEL SEMINARIO


Il testo che presentiamo è stato pronunciato dal giovane Colombo, che poi diventerà Vescovo di Milano e Cardinale: si tratta del momento solenne in cui il Seminario diocesano, già collocato nei paraggi di Porta Venezia, trova posto in un monumentale complesso immerso in un paesaggio incantevole.
Il discorso del giovane Colombo disegna le linee di un avvenire che attende i giovani leviti, i quali dal Seminario usciranno come seme da tutto l’organismo diocesano, per entrare nella terra di un mondo inedito.
Si noti che il mondo percepito nel 1935 dal giovane Colombo, non è diverso da quello del 2005: il secolarismo globalizzante non può fare a meno di quella luce dell’Assoluto, che permette al sacerdote di rivendicare i diritti di ciò che non muore.
Infine, sia consentito notare che tutto lo spirito che dà forma alle parole del giovane Colombo si ritroverà realizzato nel mondo grazie alla figura di un uomo, che dallo stesso Colombo ha ricevuto tanto amore paterno: il sacerdote Luigi Giussani di venerata memoria. In lui è stato dato di percepire la viva immagine che Colombo usa in questo discorso:
è l’immagine dei chicchi che formano un solo pane. E’ questa l’immagine simbolica dei nostri Seminari.

Discorso dell’allora don Giovanni Colombo
Docente di Letteratura Italiana
all’inaugurazione del Seminario Arcivescovile di Venegono
12 maggio 1935

L’immagine di Pio XI perenne nel marmo, grande come il suo spirito oltre la proporzione umana, appare col gesto che benedice e rinnovella. Da Roma in questo giorno sacro al suo Santo e al suo Nome, in quest’ora pensa a noi. Trema a ciascuno il cuore che lo avverte presente.

Altezza: Eminenza,
Eccellentissimi Presuli e Prefetti della gente lombarda,
Signori Milanesi,
al Pontefice che Dio scelse dei nostri, che Dio trasse in alto a reggere, a pascere la Chiesa universa, che guidò alle gloriose imprese di giustizia e di pietà ammirate dal mondo intero,
l’Archidiocesi Ambrosiana aveva promesso un dono per il suo giubileo sacerdotale. La terra dove nacque, la Chiesa di cui fu figlio e pastore, fiera del suo quarto Papa, cercava una testimonianza di venerazione e di affetto degna di sé, non indegna di Lui. E l’ebbe.

Testimonianza gradita; perché perpetua le tradizioni di quel Seminario dove imparò, dove insegnò: dove ancora rivolano le sue memorie come a dolce nido.
Testimonianza attesa; perché il Papa che a molte regioni d’Italia donò una casa per le giovani speranze del sacerdozio, desiderava che la più bella sorgesse nella diocesi di S.Carlo, “di colui che se non fu propriamente il suscitatore dei Seminari, ne fu il genio animatore nell’attuazione così larga dei decreti del gran concilio di Trento”.
Sorse la testimonianza del nostro devoto amore: e fu opera grande e bella. In Italia e in Europa questo Seminario certamente è il più bello, e forse anche di quanti ne esistono finora.

Chi da cinque anni vi abita, potrebbe raccontare molte cose. Né il paesaggio perde con l’abitudine il suo incanto: l’arco dei monti che il Papa amava s’incurva da un lato, dall’altro s’apre la pianura operosa, e dietro verde e verde fin dove l’occhio arriva, e dappertutto la luce invade e l’alito resinoso della pineta. Qui è l’ottima dimora della preghiera e dello studio.
Eppure qui dentro nessun senso di clausura: da qualunque uscio si esca par di scendere nelle vie ariose d’un villaggio nitido e in pace, remoto dai tumulti umani.

Se Leon Battista Alberti venisse a noi dal Rinascimento, non appena all’orizzonte e alla collina, ma anche sorriderebbe a queste scale, all’ardimento sicuro delle masse e dei piani, al rincorrersi degli archi che posano e riprendono lo slancio su esili colonne, alle linee tutte che s’allontanano e ritornano alla chiesa come vene al cuore, e quivi s’annodano e balzano senza ritardi e senz’affanni su alla cupola, su alla lanterna suprema fatta a liste di cielo e di pietra. All’Alberti non tutto parrebbe ignoto, ma quel che di sé ritroverebbe, è sviluppato e assorbito a nuova vita; e non disdegnerebbe di ripetere per il Seminario un suo giudizio: - io veggo qui grazia e maestà; v’è, giunta insieme, una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena, tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall’altra parte comprendo che
ogni cosa è fatta ed affirmata a perpetuità -.

Da cinque anni ho detto che il Seminario è abitato. Ma soltanto da stamane, dopo che la consacrazione della chiesa parve infondere al complesso dei fabbricati un respiro e un ritmo di vita, il dono fu compiutamente pronto.

Questo convegno magnifico delle più cospicue rappresentanze ecclesiastiche, politiche, militari e civili, delle nobiltà del sangue e delle opere, questo fervoroso concorso di popolo, non è se non il simbolico gesto con cui
Milano offre il Seminario nuovo e grande al venerato Figlio suo che porta il papale ammanto. “Noi milanesi - fu detto ottimamente – sappiamo che le nostre speranze, le nostre passioni, le nostre lacrime, le nostre gioie, hanno speciale rispondenza del suo grande cuore”. Ma sappia anch’Egli che il suo nome glorioso e la sua benedizione destarono in noi un palpito speciale. E lo racconteranno ammirate, le generazioni venture.
Per ciò quest’ora è grande, né tutta può essere compresa da noi che la viviamo. Da essa si diparte l’avvenire religioso dell’Archidiocesi, in essa confluisce l’eredità del passato, almeno da quando San Carlo imperiosamente si diede a costruire il primo Seminario milanese, e doveva raccomandarsi a persone che non intuivano ancora che fosse né di quale importanza. “Le cose grandi – diceva per darsi coraggio – non si fanno senza fatica …
che la piccola favilla che ora a pena si vede, accenda col divino aiuto quel santo fuoco che si spera …”

Quattro secoli dopo, quando bisognò trasportare in più ariosa sede la gran fiamma da lui accesa e sempre ardente, più nessuno poteva ignorare quel che fosse e quel che importasse nella vita d’una diocesi il Seminario; ma non erano però svanite le difficoltà, poiché la cosa era un’altra volta grande. E le difficoltà dissiparono il sogno del Card. Ferrari, ma non poterono contro la volontà del successore che in nome di Pio XI poneva la prima pietra. La porpora del Card. Tosi, sormontata da quel suo largo e ambrosiano sorriso, fu vista più volte passare sotto gli alti ponti, tra le gru poderose, benedicente all’ordinato fragore di uomini e di macchine.
E poi che la gran fabbrica fu avviata a deciso compimento, chiuse gli occhi per vederla meglio dall’altra vita: discese nella tomba e a tutti parve fosse disceso in queste fondamenta.
Col suo grande sacrificio fu murato il Seminario e con altri, innumerevoli come le pietre della costruzione: dall’altissima generosità di gente che si onora “del pregio della borsa e della spada”, all’obolo che l’operaio sottrae al salario settimanale, alla preghiera ignota della poveretta che da offrire ha nulla, se non il suo cuor che soffre, ed è moltissimo.
Narrassero queste mura la loro storia secreta…!
E la narrano: non udibile a noi, l’ascoltano gli Angeli della Diocesi, gli Angeli di ciascuna parrocchia, e la ripetono a Dio.
Un popolo compatto, dai magistrati agli artigiani, dai magnati agli umili, che seppe esprimere uno sforzo così prodigioso per i valori soprannaturali della vita, rivela una giovanile riserva di energie, e fa di sé presagire cose mirabili. I Milanesi del Novecento sono ancora quelli del Carroccio.
Ah, bisognerebbe vederlo, il Seminario, in certe notti quando la luna sospesa sulla selva gli crea intorno un paesaggio fiabesco ! ancorato tra i monti e il piano, rende l’immagine di un gigantesco carroccio pronto per le battaglie e le vittorie contro ogni rinascente barbarie dello spirito.

Furono soprattutto esigenze igieniche , d’aria, di spazio, di libertà, che sospinsero a un Seminario nuovo. Ma il moderno materiale di costruzione, le abili e progredite risoluzioni architettoniche non bastano a creare un Seminario nuovo, ove manchino finestre aperte sui problemi e sugli atteggiamenti della società e dell’anima contemporanea.
Per verità
quel che infuse il Borromeo non era spirito che potesse invecchiare, ma perenne; e se mai in questi ultimi tempi un bisogno s’è fatto sentire, fu quello di rifarci a un contatto più intimo, a un approfondimento più vero. Contatto e approfondimento di spirito, che non implica necessariamente un ritorno a schemi o a forme storiche che possono irrigidire o scostare.

E’ innegabile che sforzi e dispersioni, germi ed esperienze d’ogni genere, da secoli in fermento, in questi anni nostri sono pervenuti a maturazione.
L’Europa tutta quanta si agita in un profondo travaglio spirituale per forgiarsi in un nuovo volto, né s’indovina ancora come sarà. L’Italia nostra, grazie a Dio e agli uomini di buona volontà, non tardò a chiarire a se stessa la propria missione e a mettersi con passi decisi verso un destino di civiltà.
C’è molto di nuovo oggi nel nostro sole. I sentimenti nazionali rinvigoriti ed elevati nelle coscienze hanno una vasta ripercussione sulla vita pratica; l’industria e la tecnica hanno mutato costume alle popolazioni. Si guardi come le forze idrauliche delle Alpi muovono tutte le nostre macchine, come gli scritti, le parole, le immagini si trasmettono in lontananza, come gli uomini sempre più vittoriosi del tempo e dello spazio, volano nell’aria; perfino i campi, allontanato il bove pio, ma solenne come un monumento, preferiscono l’aratro rapido e pulsante, che non conosce sudore e stanchezza.
Prescindere da questi nuovi aspetti e dalle loro complicanze sociali ed economiche, sciuparsi in oziosi rimpianti d’un tempo che non può tornare, confidare con esclusione ostinata in forme d’apostolato sorte per
le esigenze d’un popolo dedito all’agricoltura, quella bucolica d’una volta, potrebbe condurre all’ingrata constatazione che gli operai d’oggi sentano meno le preoccupazioni religiose.

Invece, risolvere i nuovi problemi, educare il clero milanese a infondere l’anima soprannaturale nel complesso atteggiarsi della vita moderna, a
far scaturire dall’età delle macchine un’età degli spiriti è il compito del nuovo Seminario. Compito arduo e rude anche, perché il sacerdote non è lo zucchero ma il sale della terra.

Da ogni parrocchia dell’Archidiocesi verranno qui promettenti giovinezze. Staccati dal mondo, raccolti per anni e anni in questo palazzo della sapienza e della scienza, della preghiera e della disciplina, a poco e a poco pazientemente tenderanno le fibre del loro essere come corde d’arpa per una divina salmodia, apriranno la vela dell’anima loro per la conquista d’orizzonti oltremondani.

Quando poi l’Arcivescovo li vede pronti, li chiama. Ma la coscienza dell’irrevocabile atto che liberamente invocano di compiere, li soverchia ancora una volta,
e li distende con la faccia sulla pietra simili ai morti. Il Consacrante li risolleverà con la potenza dello Spirito che crea, e quelli pallidi e tremanti sotto le sue mani si riplasmeranno in nuove creature. Scenderanno i giovani preti da questa collina, ma con altri occhi per guardare il mondo, ma con altri interessi per viverci, ma con altre parentele: padre, madre, fratelli a loro non saranno tanto quelli con cui ebbero in comune il sangue, ma gli altri a cui un’obbedienza li destina e per i quali consumeranno i giorni e le opere con “un amor che per sé gioia non vuole”.

Li attendono i nostri borghi, le città, la metropoli: innumerevoli blocchi di case, assembramenti d’uomini, trame aggrovigliate d’affari. Entreranno in mezzo, e spalancheranno lembi di cielo davanti ad occhi che si ostinerebbero a guardare in terra.

E’ vero che le provvide leggi patrie già uniscono gli uomini nel vincolo della giustizia e dell’ordine: ma ogni
ideale umano, se non l’investe la luce dell’Assoluto, s’intorbida di facili egoismi, come ogni specchio d’acqua terrena illividisce quando le nuvole coprono il cielo. Ebbene, il sacerdote tra le cose periture, rivendica i diritti di ciò che non muore.

Ecco: i raggrupamenti di case intorno al campanile, indice gigantesco proteso verso l’eterno, si stringono nell’unità della parrocchia. I fedeli, benché differenti per censo, per cultura, per nobiltà, hanno nella chiesa, tutti, la medesima casa, dove il sacerdote parla di interessi che preoccupano tutti. E tutti guardano nel medesimo altare di colui che, Dio da Dio e Luce da Luce, discese dal cielo per la salvezza di noi uomini, nacque dalla Vergine, fu ucciso sotto Ponzio Pilato, e resta con noi nell’apparenza d’un cibo e d’una bevanda. E’ per il sacerdote che le anime possono sfamarsi di quel Pane che è per tutti, vivo ed intero: Gesù Cristo il Redentore. In Lui si diventa una cosa sola, come di molti chicchi si fa un sol pane, di molti acini si esprime un sol vino. Uniti in Lui ognuno veracemente guarda in alto e dice: “O Padre nostro che nei cieli stai …”

Non sono appena le nuove esigenze delle parrocchie a domandare rinnovata preparazione. Le numerose associazioni e specialmente i molti istituti e collegi affidati al clero milanese sotto la direzione dell’Arcivescovo, invocano dal Seminario un’eletta schiera di educatori.
Le novelle generazioni salgono alla vita con gusti, esigenze, problemi nuovi: bisogna con passione cordiale studiare, per saperle comprendere, per poterle amare. Educare è avvicinarsi ai giovani come ad una fiamma e con paterno soffio sceverarla dal fumo a lei commisto, finchè quello che di divino pose
in loro il Battesimo risplenda liberamente. Sentiranno allora che il cattolicismo vissuto non è mortificazione della personalità, ma il tenace sforzo di svilupparla nel più alto grado possibile, sciogliendola dagli ostacoli che sono in noi contro di noi.

Ora poi che una saggia legislazione ha richiamato nelle scuole medie l’insegnamento religioso, ora che un alito spirituale tocca la scienza e gli studiosi, le professioni e i professionisti, s’impongono ancora altri bisogni ed altri problemi che il Seminario nuovo non trascurerà.

Forse come non mai
l’uomo di studio soffre la mancanza d’orientamento spirituale. Vi sono nella classe dei dirigenti e degli intellettuali molte anime, senza saperlo, cattoliche. Si sono foggiate uno schema meccanico esteriore, dove lo spirito è svanito, dove resta solo una passiva inerzia e lo chiamano cattolicismo. Bisogna che il Seminario formi gruppi di sacerdoti capaci d’intendere le aspirazioni di questi nobili cuori e di far loro sentire l’eterna onda di vita che scroscia dal dogma. Come il miniatore medievale, illuminando l’ampie pagine dei corali, sapeva coronar un fiore con la raggiante testa di un angelo, così più numerosi che nel passato occorrono sacerdoti che possano accendere sulla parole della scienza la raggiante luce della rivelazione divina.

La Facoltà Teologica rinnovata secondo l’ardue costituzioni della Deus Scientiarum Dominus, il vasto riordinamento delle discipline sacre, ed anche le scienze e le lettere umane coltivate con ricchezze di biblioteche, di musei, di laboratori, assicurano a Milano un clero certo non impari alle esigenze spirituali e culturali dei tempi nuovi.

In alto i cuori e la speranza !
Con una guida illuminata e operosa come Vostra Eminenza, già il nuovo Seminario si volge a gloriose mete.
In alto i cuori e la speranza !
La solenne immagine di Pio XI incita e benedice: Egli è il Papa che agli atteggiamenti nuovi della vita moderna diede le nuove forme dell’Azione Cattolica, al problema pedagogico dettò l’Enciclica sull’educazione; per un clero più dotto riformò le Università Teologiche.
Qualunque giovane da oggi e per i secoli a venire, vorrà ascendere queste scalee grandiose verso il grandioso ideale del sacerdozio, sotto quel volto e quel gesto,
sarà sorpreso da un secreto sgomento e udrà risuonargli in cuore un’austera parola di lui: “senza riguardi umani, senza esitazione – è molto meglio un sacerdote pienamente formato, che quattro o cinque mediocrità”.

Altezza, Eminenza
Eccellentissimi Presuli e Prefetti della gente lombarda,
Signori Milanesi
Ogni popolo ha i sacerdoti che si merita. Ma il popolo nostro che con sacrifici e generosità non mai viste seppe costruire questo Seminario, si merita sacerdoti così come li ha desiderati.
E li avrà.
Dio glieli susciterà.