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Omelia per il 70° di sacerdozio
DONO TOTALE A DIO



Parlare del sacerdozio e del sacerdote in questa solennità dell’Ascensione,che volge i miei pensieri al Paradiso, nel 70° anniversario della mia consacrazione è la mia gioia più intensa e commossa. Né mi basterà l’eternità a dire grazie a Gesù che mi ha chiamato, alla Vergine che dall’infanzia mi ha fatto sentire la sobria ebbrezza della fede, dell’amore, del
dono totale della mia vita a Dio solo, al compagno di affetti e di scuola divenuto prete dopo di me, che ha suggerito al mio assistente di oratorio che volevo farmi prete, a lui, al sacerdote della mia fanciullezza che mi ha insegnato con straordinaria efficacia il catechismo e, col suo esempio di zelo senza stanchezze, di preghiera un ostinata e adorante, di immacolato candore, di immensa apertura sul mondo e sulla vita, mi ha fatto intravedere, dai miei anni più teneri, la bellezza del servizio dell’altare e delle anime, nella Chiesa, solo per Cristo e per la Chiesa.

La mia forte e intelligente nonna paterna mi ripeteva che, bimbo di pochi anni, mi avvolgevo di una salvietta come fosse la stola della Messa, e ricordo che a soli 4 anni, dalla sponda del mio letto di ferro balbettavo una specie di sermone per lodare Cristo ed esaltare il suo amore.

Appena decenne, ma cosciente di quello che facevo, entusiasta del mio ideale accarezzato nel segreto del cuore da sempre, ho vestito l’abito ecclesiastico e sono entrato in seminario. Era Arcivescovo e sarebbe divenuto papa dopo appena due mesi il Cardinale Achille Ratti, che mi guardò teneramente e mi benedisse proprio il giorno del mio 11° compleanno.

Insieme alla grande serietà degli studi, con l’apprendimento perfetto del latino, in una vita certamente dura, col freddo gelido che affliggeva di geloni le mani e i piedi per tutto l’inverno, con grande spavento di mia madre, e la fame per lo scarso e il cattivo nutrimento, in quegli anni difficili del primo dopoguerra, infestato dall’anarchia e già dal malcostume, il seminario mi ha dato un impulso allo studio severo, alla preghiera, al nitore della coscienza, alla bontà, ai più alti ideali.

Ho conosciuto in quegli anni gli eroismi dei missionari, attraverso incontri frequenti con grandi apostoli del Vangelo, come il Padre Beduschi, eroico testimone della fede tra l’infelice tribù degli Shilluk sulle paludose rive del Nilo, e la lettura appassionata delle riviste che mi volto man mano ad amare sempre più le missioni, nonché alla decisa volontà di farmi missionario.

Ancora adolescente, il seminario mi ha dato la gioia della santità, prestandomene l’intelligenza nella lettura delle vite dei Santi,di quella del mio Patrono San Luigi, scritta dal confratello P. Cepari, e la “Storia di un’anima” di Santa Teresa di Gesù Bambino, il libro che ha letteralmente trasformato la mia vita, fino a farmi ripetere, non senza trepidazione ,
la preghiera di offerta di vittima all’Amore Misericordioso, che è l’apice della spiritualità della grande giovanissima Santa del Carmelo.

Gli anni successivi, l’anno di noviziato presso i Comboniani detti allora “Figli del Sacro Cuore” a Venegono Superiore, poi la fine del liceo classico nell’incantevole seminario di Monza, e la teologia nel nuovo seminario di Venegono, sono state le tappe di un cammino indimenticabile, la preparazione alla gioia, alla gratitudine, alla pace interiore, all’entusiasmo della mia povera umile vita di prete.

Ma il miracolo è questo: l’amore a Cristo è divenuto sempre gli più ardente e le prove, gli insuccessi, gli errori, le stesse mie debolezze mi hanno confermato nella certezza che, se mille volte rinascessi, mille volte mi rifarei quello che sono: sono prete e non voglio essere che prete, la più bella, la più gioiosa, la più grande vita che un essere umano possa desiderare e sperimentare.

Certamente, bisognerebbe essere santi. Ci occorrerebbe una personalità superiore, perché il vero sacerdozio passa e si foema attraverso l’eroismo. Don Bosco, don Orione, don Guanella, don Calabria, che ho profondamente conosciuto, tutti Santi celebrati, erano dei giganti. E il Curato d’Ars, così labile negli studi, lo riconoscono tutti quelli che hanno studiato la sua personalità autentica, possedeva un raro acume intellettuale.
Fa dire Bernanos a un suo personaggio: “Sono un vecchio prete e so quanto una certa formazione manchevole … i caratteri fino a confonderli spesso in una comune mediocrità”. Non aveva del tutto torto Nietsche quando osservava che la comunità rende comuni, ma io penso con gratitudine all’educazione che il seminario con eccellenti superiori in lunghi anni mi ha dato.

Penso con tristezza a quei poveri preti deboli di carattere, senza personalità, pavidi, lontani da ogni slancio, incapaci di iniziativa, perfino, direbbe Isaia, cani muti senza ispirazione, senza parole ferme e vere, senza grandezze. Mediocri nella vita, lo erano già negli anni del seminario, senza impegno, senza slancio, soprattutto senza una preghiera profonda e sincera.

Il prete che si impegna per il Regno di Dio deve essere forte come il diamante e la roccia, più che la quercia che sfida nei secoli le tempeste, capace di affrontare ogni rischio, anche, se importa di salire la Croce insanguinata.

Non i mezzi uomini, mi ripeteva sempre Padre Gemelli, ma le personalità robuste, volitive, i veri uomini completi Cristo reclama. Con Padre Gemelli, il mio amato Padre, come sempre lo chiamavo, ho goduto della più grande intimità. Forse nessuno nell’Università Cattolica, dove ero Assistente Ecclesiastico Capo, fruì al pari di me della sua totale intimità e debbo dire che egli fu un gigante, un vero Santo, lontano infinitamente da quelle meschinità, di cui troppi mediocri lo hanno investito.
Profondo e vero, mi confidava ogni suo pensiero, anche i suoi giudizi su persone ed eventi, ed appresi da lui ad amare e a dire la Verità, in sincerità totale in tutto e sempre.

“Chi semina nel pianto raccoglie nella gioia”.
La grande parola biblica, questo motto che illumina di speranza ogni nostro giorno mortale, è il più efficace commento alla mia giornata sacerdotale.
Seminare nel pianto. Chi può dire tutte le lacrime della terra? Come potrei dire di tutte le lacrime che ho versato ed asciugato?

Ricordo una madre ferita dalla inguaribile malattia del figlio, un male che durava da trent’anni e per il quale non vi è stato rimedio. Ella disse di non poter accettare questo dolore. Quanto ho pianto con lei, io giovanissimo prete ed ella dolorosa sposa che accolse piangendo l’ultimo respiro del figlio. Non ho il tempo né la possibilità di fissare col mio sguardo tutto il dolore di cui sono stato testimone e partecipe, non soltanto nell’atroce tempo della guerra.

Tutto è andato così in fretta nella mia vita, né mi rendevo conto del dolore e del pianto che mi circondava.
Non è facile la vita. Il dolore e la morte, che non sono senza significato, l’affliggono.
“Tutto va così in fretta. Non vi è neppure il tempo di guardarsi in viso. Non mi rendevo conto…” mormora la povera Emily, la giovane sposa di Piccola Città di Wilder, morta appena dopo le nozze e uscita per un’ora dal sepolcro. “Tutto ciò accadeva e noi non ce ne siamo mai accorti… accade mai che ci sia qualcuno che comprenda la vita mentre è vivo? …che viva ogni minuto senza perderne uno?”

“Effonderò, dice il Signore, sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di preghiera. Guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno lutto come si fa lutto per l’unico figlio, lo piangeranno amaramente come si piange per il primogenito. In quel giorno grande sarà il cordoglio di Gerusalemme…”
Il trafitto è Cristo, del Quale diranno i discepoli di Emmaus al pellegrino sconosciuto: “Tu solo sei così straniero in Gerusalemme da non sapere quello che vi è accaduto in questi giorni?”
Ma il trafitto è anche ogni uomo, l’uomo povero e solo della leggenda di ognuno, destinato alla sofferenza e alla morte.

La fine! Nulla è duraturo quaggiù. Tutto è effimero. Tutti piegano il capo e passano per la porta dei poveri, che è la morte. Gente dorata, cioè gente afflitta da capitali favolosi. Ma anche gente carica solo di miseria. Gente consumata dal male. Gente colta d’improvviso nella pienezza della vitalità. Vite che parevano felici, vite giovani spezzate anzitempo. Volti con l’espressione serena e dolce, come di chi, senza maledire, accetta l’inesorabile viaggio verso l’ignoto. Volti deformati da una smorfia, volti composti in un sorriso di benedizione e di pace.

La scuola della vita, più ancora in questa età che si direbbe e non è felice, è dura, è cruda, arida, senza amore. Una scuola che pone immediatamente chi ha il coraggio di essere sincero, in una difficile alternativa: vuoi proprio servire solo a te stesso e divenire schiavo del tempo e delle cose, o sai guardare e vivere oltre?
Mai come oggi avvertiamo il naufragio delle cose fittizie in quelli che vivono. Mai si è fatto come oggi sentire colla morte il senso indistruttibile dell’Eterno, in ognuno che s’indugi a pensare.
“Chi crede in me ha la vita eterna”. E’ parola di Gesù che non si cancella.

Il cristiano, ha detto Tertulliano, è colui che è sempre preparato a morire. Invece, io penso che il cristiano che professa fino in fondo la propria fede e che si illumina della speranza lontana da ogni illusione, è l’uomo che non muore mai.

Ricordo il vecchio parroco di montagna (quanti ne ho conosciuti di questi vecchi, predicando gli esercizi spirituali) che era salito quasi correndo verso una baita appena sotto la vetta, per confortare una povera agonizzante. Il suo cuore era stanco di troppi anni e, data l’Eucaristia all’inferma, il vecchio prete si era indugiato, scendendo, su una logora panchina vecchia di secoli. Avendo avvertito d’un tratto un’acuta fitta al cuore, invocò il perdono del suo Dio della Croce, mentre aveva l’impressione di avviarsi verso un immenso mare aperto, portato miracolosamente da lunghe onde pacate, incontro ad un Sole che non era più il nostro sole che tramonta. Ne ebbe una immensa pace e reclinò il capo affranto, abbozzando nell’incontro con Dio un estremo ineffabile sorriso.
Un montanaro suo amico lo sorprese così, immoto quasi freddo, nell’immenso anfiteatro alpino sotto il Monte Rosa. Un infarto? No, non si dà questo nome ad un cuore, che sembra arrestarsi, ma che continua a vivere in eterno, solo per amore.

Cristo parla con estrema chiarezza del Suo destino atroce di crocifissione. Ed è solo ed incompreso. Pietro, che pure ama appassionatamente il suo maestro, lo redarguisce. Viene alla mente la troppo malinconica parola di Sant’Agostino: “in questo pellegrinaggio della vita terrena, ognuno risponde del proprio cuore, ed ogni cuore è chiuso al ogni altro cuore” (Enar. In Ps. 55,9).

Per questo, dicendo “uomo”, diciamo angoscia, pianto, destino di amarezza, solitudine, peccato, delusione, minaccia. Troviamo così una risposta al nostro interrogativo su cos’è l’uomo in se stesso, nella sua divisione, nella sua contraddizione, nelle sue discordie o, come ha detto Pascal, nella sua miseria e nella sua grandezza.
Poiché Cristo è diventato quello che noi siamo, noi diventiamo accettabili a noi stessi, partecipi del suo destino di dolore, ma avviati con Lui ed in Lui alla pace senza fine e all’Amore infinito.
Così, nelle tristezze presenti, andiamo incontro al domani, fiduciosi in Cristo, ma non senza fiducia anche nell’uomo nostro fratello, da Lui amato e redento, sapendo scoprire in ogni essere umano, in ogni evento il segno di Dio.

Andiamo dunque in compagnia della povera gente, senza presunzione e senza pessimismo, sapendo che ogni giorno, ogni istante è un dono, con la serena serietà di chi si rifiuta di ingannare se stesso, cantando nel mondo l’inno della speranza, che molti hanno dimenticato, quasi Dio non sia più il nostro Padre.
Andiamo, sapendo che nessuna prova sarà senza grazia e nessun dolore sarà senza pace.
Andiamo, sapendo la nostra unica vocazione, che nessuno potrà assolvere all’infuori di noi, e quanto per questo siamo attesi e responsabili sul terreno della giustizia e dell’amore.
Andiamo, sapendo che la realtà è sempre più vasta delle possibilità.
Andiamo, sapendo che nessun dolore va perduto, nessuna lacrima.
Andiamo con nella mente e nel cuore i nostri dolci ineffabili appuntamenti.

Con Te, Signore Gesù, con la Vergine Madre, con la Chiesa del cielo e della terra, con la nostra vocazione e i doveri di ogni istante. Con tutti i poveri, i dolorosi, gli umiliati e gli offesi. Coi giovani nella speranza sempre viva del domani. Coi vecchi bisognosi di conforto e di aiuto, ostinati mendicanti di amore, celebro commosso questo anniversario e guardo al lungo cammino, segnato da infinite grazie. Con dolore, con amore, con tutte le lacrime del mio profondo pentimento, stringo nelle mie mani consacrate dal Beato Cardinale Schuster, l’Ostia e il Calice del Sacrificio Eucaristico, e supplico Gesù che per la preghiera dell’Immacolata Sua e Nostra Madre, accolga nella Sua infinita Misericordia l’anima mia e di ciascuno che ho inconcontrato.

Nulla come sacerdote ho da difendere, se non la mia povertà e questa speranza che mi rende presente ad ognuno, vigile di fronte alla vita, ma non meno presente di fronte al destino che mi vuole mortale, quando il Volto di Cristo, il Santo e Povero Cristo della Croce mi lascerà muto, ma non atterrito al termine del mio viaggio.

Mi accompagnerà allora solo questo rimpianto: ho amato così poco, sono passato indifferente ed egoista accanto a tanti miei fratelli. Ma assaporerò insieme la certezza di essere stato fin troppo amato, e la gratitudine di essere stato scelto, amato, benedetto infinitamente aldilà di ogni mio merito e di ogni mia attesa.

Nato nella più verde, pacata pianura, nella più antica cascina lombarda: la Giugalarga, dal nome medievale, accanto alla quale s’indugia ora il metrò di Gessate, ho sempre amato le montagne, senza peraltro salirle mai, ma contemplandole e assaporandone la bellezza come un riflesso di Dio.
Dio, il Cielo, la Vita Eterna!
Tanto ho parlato di tramonto nelle omelie di ogni ricorrenza di questi ultimi anni. Potrei ridire ora la mia gioia di quando nell’Ossola passavo le estreme ore del giorno assaporandola gioia e la bellezza dei tramonti. Il mite Virgilio li desiderava nelle Bucoliche con quelle stupende parole: “maioresque cadunt altis de montibus umbrae”
Posso dire che mai ho goduto, come nella contemplazione degli alti monti nell’ora del sole calante.

Apro qui il cuore, non senza commozione, ad un’ultima dolcissima confidenza.
Sulla terrazza di quella casa, dove ho accolto per anni, gratuitamente e con tanto amore, giovani di ogni nazione e comunità, di ogni religione: protestanti, buddisti, ebrei…ho visto e in qualche modo sentito con il Volto la Voce di Dio. Nella certezza della mia fede, perché tale è il mio Credo, posso dire che ho preso sempre coscienza che il mio Dio, il Gesù della mia vita, non è un’idea, non è un’immagine, nemmeno una religione quale che sia. Ma una
presenza reale, in qualche momento quasi sensibile, un’immensità umanamente inconcepibile, ma soprattutto un amore che ci investe totalmente, se noi lo accogliamo, un dolore crocifisso ma risorto e glorioso, che ci cammina accanto, in attesa di aprirci quella porta che ci introdurrà, lo prego e lo spero, nella beatitudine senza fine.